L'ABUSO SESSUALE NELL'INFANZIA, articolo di giuseppe miti

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ScintilladiEmi
view post Posted on 25/7/2009, 02:28




Se avete la pazienza di leggerlo, lo trovo molto interessante. Riporta anche dei casi in cui l'abuso era simulato, uno reale e uno che resta sospetto e basta.



L'ABUSO SESSUALE NELL'INFANZIA: UN'ANALISI COGNITIVO-EVOLUTIVA.

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Articolo pubblicato su " Psicobiettivo", Aprile 1999, anno XIX, N. 1

Enrico Costantini, Giuseppe Miti
Psichiatra e Psicoterapeuta, ARPAS
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DA QUI è TUTTA STORIA DELLA PSICOANALISI RELATIVA ALL'ABUSO
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L'influenza che il paradigma scientifico dominante esercita sui programmi di ricerca e sulla costruzione di una sistematizzazione del comportamento di alcuni aspetti del mondo reale è stata ben descritta da Kuhn (Kuhn T., 1969). La storia delle scienze della mente non fa eccezione a questa posizione filosofica, e, nello specifico, il problema dell'abuso infantile rappresenta un'area emblematica di come i fattori ideologici e paradigmatici possano influire sull'attenzione, sulla definizione e sul significato attribuito dalla società scientifica ad un evento osservato.
Quasi con accanimento, si è molto discusso in questi ultimi anni dell'abbandono da parte di Freud della teoria della seduzione, motivandolo, almeno in parte, con l'adeguamento ai valori socio-culturali del periodo. Il paradigma psicoanalitico delle fantasie edipiche ha, in effetti, dominato per buona parte di questo secolo, contribuendo probabilmente alla scotomizzazione degli abusi reali sull'infanzia. Sull'onda del cambiamento culturale innescato negli anni '60 e '70 da diversi movimenti di liberazione (ad es. il femminismo) e dall'attenzione maggiore fornita dalla società ai diritti dell'infanzia e ai maltrattamenti, e contemporaneamente alla crisi della psicoanalisi dovuta anche al sorgere di nuove teorie, si è andato formando negli anni '80 un nuovo paradigma esplicativo che ha avuto la sua massima espressione nell'esplosione dei resoconti scientifici sugli effetti psicopatologici dell'abuso infantile, i cosiddetti Disturbi Dissociativi.
Un percorso parallelo sembrano aver seguito le teorie sulla coscienza, sulla memoria e sull'identità. Anche se il pensiero di Janet era largamente diffuso ed apprezzato verso la fine dell'800, l'importanza che questo Autore attribuiva alla dissociazione della coscienza, alla utilità di recuperare i ricordi disaggregati legati ad un trauma infantile, e quindi la descrizione di una identità non necessariamente unitaria, ma multipla, è stata accantonata a favore delle spiegazioni della scuola psicoanalitica. Solo negli ultimi venti anni l'approccio teorico di Janet è stato recuperato e rivalutato e, in particolare, l'esigenza di ricostruire gli eventi traumatici e l'origine causale del disturbo psicopatologico è divenuta il punto centrale degli interventi terapeutici in tutti i disturbi che si suppongono in relazione eziologica con un abuso infantile.
Tuttavia, la forse eccessiva enfasi su questo aspetto ha generato, soprattutto negli Stati Uniti, una corrente di pensiero e un movimento di opinione così fortemente critici che una buona parte degli articoli e dei lavori degli ultimi anni sono dedicati a ricerche empiriche sull'attendibilità e l'accuratezza delle 'memorie dimenticate', la suggestionabilità (iatrogenesi) e la corroborazione dei ricordi, allo scopo di difendere il paradigma dell'"abuso dissociato" dalle contestazioni radicali.
All'interno di questo dibattito, il contributo della Teoria dell'attaccamento e dei Sistemi Motivazionali Interpersonali apporta, a nostro avviso, una prospettiva che, se non elimina il problema della memoria vera o falsa, allarga l'ottica con la quale osservare lo sviluppo psicologico e psicopatologico degli individui, sottolineando la complessità e la qualità delle relazioni del bambino, e non solo l'impatto di un evento, singolo o ripetuto, sul suo assetto psichico. L'utilità di questa teoria e di questo approccio (cioè, di questo paradigma) è talmente evidente da essere riconosciuta ed apprezzata anche all'interno della scuola psicoanalitica attuale. Secondo Muscetta, ad esempio (Muscetta S., 1997), "se si modifica il concetto di inconscio per farlo diventare non solo qualcosa che include specifici ricordi rimossi e stati conflittuali legati a pulsioni, ma qualcosa che invece si riferisce a configurazioni internalizzate del Sè e dell'altro in interazione, è l'intero obiettivo terapeutico che si modifica".
E' anche vero, tuttavia, che sembrano aumentare le richieste di psicoterapia legate al ricordo o alla percezione di aver subito un abuso nell'infanzia, così come sembra più frequente nei terapeuti il sospetto che i disturbi psicopatologici dei pazienti possano essere correlati ad una storia infantile di abuso. Il problema dell'attendibilità della memoria, la difficoltà di recuperare i ricordi e i dubbi sul comportamento da tenere sono cioè reali e spesso rappresentano un punto nodale della terapia.


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FINO A QUI è TUTTA STORIA DELLA PSICOANALISI RELATIVA ALL'ABUSO
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Noi, attraverso il resoconto di tre casi clinici, cercheremo di descrivere alcuni tra gli indizi e i criteri che, nella nostra esperienza, fanno ritenere possibile o probabile che si sia verificato un caso di abuso infantile, o che comunque suggeriscono al terapeuta di prendere in considerazione questa possibilità; quindi illustreremo le diverse evoluzioni del processo terapeutico in conseguenza della verificabilità e della veridicità del ricordo; infine, esporremo quelle che ci sembrano essere alcune tra le possibili linee terapeutiche utilizzabili.

DANIELA: QUANDO IL SOSPETTO RIMANE SOSPETTO

Daniela ha deciso di interrompere il rapporto con Marco, che dura da sei anni; la decisione è comunque difficile e la relazione si trascina per qualche mese in un tira e molla indefinito. In questo periodo, Daniela si sente "in trappola" ed inizia ad accusare sintomi a tipo attacchi di panico ed agorafobico: la sua libertà di movimento si riduce, avverte una mancanza di equilibrio quando cammina da sola, ha vertigini ed è continuamente ansiosa, ha paura di divenire matta e perdere il contatto con la realtà e il controllo delle sue emozioni, di sentirsi in totale balia degli altri, dipendente da loro. Si rivolge ad uno psichiatra che le prescrive una terapia farmacologica e le consiglia una psicoterapia da un altro psichiatra.
I sintomi di Daniela sembrano confermare l'ipotesi diagnostica del medico inviante, cioè un disturbo di tipo fobico. La psicoterapia perciò si orienta su questa linea, analizzando il significato del suo rapporto sentimentale, la decisione di interromperlo e la qualità del suo rapporto con i genitori, attraverso la ricostruzione della sua infanzia. Si riesce così a valutare come l'atteggiamento dei genitori nei suoi confronti sia sempre stato ipercontrollante e colpevolizzante, come siano sempre stati indisponibili e chiusi al suo mondo emotivo. I frequenti litigi tra i genitori avevano poi portato il padre ad abbandonare la famiglia quando Daniela era ancora piccola.
L'esame della situazione procede per alcuni mesi, delineando una anamnesi soddisfacente dal punto di vista teorico, ma...Daniela sta sempre male. Anzi, il rapporto con il medico sembra più difficile, ostacolato da una scarsa produzione verbale, da un silenzio a volte opprimente. Ci sono momenti in cui Daniela sembra attanagliata da un'ansia dirompente che le fa torcere le mani e le toglie le parole. La percezione di una situazione di stallo suggerisce al terapeuta di ricorrere ad un aiuto farmacologico tramite il medico inviante, di rivisitare il percorso terapeutico sin lì effettuato e di chiedere allo stesso medico inviante la possibilità di una discussione del caso, un peer counseling.
La semplice rilettura degli appunti presi nelle prime sedute permette al terapeuta di soffermarsi su alcuni dettagli che gli erano sembrati irrilevanti o che aveva interpretato in maniera errata. Probabilmente, la maggiore concentrazione per gli aspetti relazionali aveva lasciato sullo sfondo dell'attenzione alcuni messaggi (inconsapevoli?) della paziente: nel riferire eventi della vita quotidiana, racconta di essere rimasta molto colpita dalla visione del film Angel Heart, in cui il protagonista ha ceduto l'anima al Diavolo ed ha cambiato identità, perdendo il ricordo della precedente; in una scena, si guarda allo specchio disperato e grida: "Io lo so chi sono!", ma non è vero e finisce per essere giustamente punito per la sua cattiveria. Daniela commenta di aver pensato: Anch'io sono così, posso aver fatto qualcosa di male senza saperlo e verrò punita, meritatamente.
In altre occasioni, racconta di immagini cruente e violente che le si impongono alla mente e che cerca di cancellare con forza perchè la spaventano e non riesce a dar loro un significato.
A volte riferisce dei sogni surreali di morte o nei quali qualcuno cerca di costringerla a fare qualcosa che le ripugna, come prendere in braccio un rettile.
E, per finire, alcune volte collega l'impossibilità di parlare al terapeuta di alcuni pensieri disgustosi con la sofferenza e la paura che ha provato da piccola in episodi di cui non riesce ad avere che ricordi confusi e parziali, ma che sono tutti legati alla figura minacciosa di uno zio che viveva con lei.
Grazie all'esame di questi elementi e di altri simili, nella discussione con il collega viene presa in considerazione l'ipotesi di un abuso sessuale e riformulata la diagnosi che appare più collegata ad un disturbo dissociativo (esemplificato dal racconto del film).
Anche Daniela, naturalmente, è consapevole che qualcosa non sta funzionando nella terapia, e lo esprime a modo suo, silenziosamente. Questa comunicazione non verbale ha costruito un'atmosfera emotiva nella quale scorrono, tacitamente, irritazione e rabbia: del terapeuta, che ha la percezione, superficiale ed erronea, di una paziente non collaborante, e della paziente che, giustamente, non si sente capita ed aiutata, ma non può esprimerlo perchè se ne sentirebbe colpevole. Così come si sente colpevole di tutto, anche di avere paura. Daniela si tiene a distanza in tutto il suo comportamento: nascosta ed infagottata negli abiti, non guarda mai negli occhi il terapeuta, è in preda ad un'ansia che sente come paralizzante in tutte le attività, percepisce e teme il rifiuto in tutte le relazioni, aspettandosi dagli altri lo stesso disprezzo che si attribuisce da sola. In altri termini, Daniela esprime continuamente l'emozione della vergogna.
L'ingresso nel processo terapeutico di una terza figura, cioè del medico inviante che inizia a seguire la ragazza dal punto di vista farmacologico (ma non solo) e che discute con il terapeuta regolarmente del caso, porta ad un cambiamento del rapporto e del setting terapeutico. Anche se Daniela aveva richiesto una terapia farmacologica per non pensare alle cose che la spaventano, una volta tranquillizzata accetta invece di parlarne e propone di utilizzare un'intermediazione: di portare, cioè, in seduta un suo vecchio orsacchiotto tramite il quale esprimere quello che non sa/può dire. L'idea le è venuta perchè in quei giorni sui giornali era stato descritto questo metodo per permettere ai bambini maltrattati di raccontare esperienze dolorose prendendone un po' le distanze.
Così, l'orsacchiotto inizia a divenire una figura dotata di una sua autonomia ed identità, e a produrre immagini strutturate e ricordi definiti di molestie e abusi sessuali da parte di familiari della paziente. Bisogna rilevare come, pur essendo questa tecnica suggestiva di un'induzione autoipnotica di uno stato di trance, Daniela non sembra affatto in uno stato alterato di coscienza. Quello che avviene sembrava avere a che fare con la condivisione di conoscenze tra due parti di lei, contemporaneamente presenti e separate. Come dirà Daniela dopo qualche tempo, l'orsacchiotto sembra la parte di me che contiene i segreti, ma è come un dialogo tra me e me, spesso attivato da immagini. Sono le stesse immagini che avevo prima, ma che non capivo e che attribuivo a qualcosa di brutto dentro di me e cercavo di allontanare. Ora ho meno paura, ma sono più triste.
Nonostante ciò, e nonostante alcuni sogni la cui interpretazione e il cui utilizzo come immagini di un daydreaming consapevole conducessero verso analoghi contenuti, Daniela è rimasta sempre fortemente dubbiosa: sull'identità dei protagonisti delle immagini, dei ricordi e dei sogni, e soprattutto sulla realtà di questi. Probabilmente, la necessità di mantenere un rapporto accettabile con i genitori, sue uniche figure di riferimento in un'esistenza povera di relazioni, ha prevalso sul bisogno, che pure sentiva, di recuperare la memoria del suo passato. Nello stesso tempo, però, Daniela ha acquisito una maggiore sicurezza che le ha permesso di affrontare comunque alcuni aspetti di questi rapporti: è riuscita a spiegare alla madre come si sentisse trascurata da piccola e, quando la madre le ha chiesto genericamente scusa pretendendo di parlare con il terapeuta, ha trovato il coraggio di dirle che se vuole alleggerirsi la coscienza deve farlo con lei e non con il medico. In effetti, il rapporto con i genitori sembra essere cambiato ed anche il loro atteggiamento si è modificato, diventando leggermente più affettuoso ed accudente. Ora, Daniela riesce anche ad arrabbiarsi qualche volta e a farsi rispettare perchè si sente più forte delle sue paure, ma non riesce mai del tutto a non sentirsi un po' colpevole quando prova ed esprime emozioni nei confronti delle quali resta forte un giudizio morale ambivalente: da un lato capisce che ha ragione a difendere le sue opinioni, dall'altro si considera cattiva, indegna o teme di subire una qualche punizione per il suo comportamento. Vorrei tanto poter dare la colpa a qualcuno, però non ci riesco; tutto ricade sempre su di me.

PAOLA: l'ABUSO REALE

Paola giunge accompagnata dal marito, sinceramente e congruamente preoccupato per la salute della moglie. Le notizie che seguono sono raccolte da entrambi. Al momento della prima visita ha 28 anni. E' vestita in modo modesto, ma ordinato. Non è truccata, è discretamente sovrappeso. Lo sguardo, all'inizio costantemente rivolto verso il basso ( come se si vergognasse ), vaghera' poi tra me, il marito ed il vuoto ( come se si estraniasse ). Alterna perplessita', forte angoscia ( le dita vengono attorcigliate l'una all'altra e quindi il movimento si articola in uno sfregamento lento, ma violento delle mani, mentre i tratti del viso vengono alterati da una fortissima tensione) e pianto (si raccoglie su se stessa e piange, silenziosamente, senza singulti, come se stesse disperatamente sola di fronte ad un dolore soverchiante ed inevitabile). L'ideazione e' incentrata sulla convinzione assoluta, delirante, che tutti sappiano che e' stata violentata e quindi ammiccano, alludono, la deridono, la isolano, la rifiutano. Chiarira' poi che tutti sanno perche' i parenti del marito ed in particolare la sorella," parlano ". Questo dato sara' molto importante per comprendere il processo che ha portato alla crisi. A questo punto il marito interviene specificando che la violenza sessuale c'e' stata davvero e si e' conclusa con una condanna del padre di lei a due anni di carcere. Emerge quindi in prima seduta un abuso sessuale certo, corroborato dalla condanna di un tribunale, portato avanti dal padre in un periodo che va dai sette ai quattordici anni di eta' della paziente. E' chiaro, anche per il contenuto del delirio, che l'abuso sessuale e la crisi attuale sono collegate, ma come? Perche' la crisi c'e' stata proprio adesso? Queste ed altre domande senza risposta continuavano a girare nella mia mente. Prescrivo 40 gocce di aloperidolo, 45 gocce di bromazepam ed un anticolinergico. Fisso l'appuntamento dopo sette giorni e do' la disponibilita' telefonica per qualunque evenienza. Alla visita successiva la paziente sta inaspettatamente e clamorosamente meglio. Il delirio non c'e' piu' e devo addirittura abbassare la dose del neurolettico, perche' e' presente una discreta ipertonia. Le migliorate condizioni psichiche consentono una maggiore collaborazione e cio' permette, nel corso delle sedute successive, di parlare dell'abuso e di cio' che ha preceduto la crisi. Quello che segue e' un estratto di quanto emerso. Mi sono limitato a dare una consecutio ai fatti in modo che fossero comprensibili a chi legge.
La famiglia era composta da padre, madre e due fratelli ed una sorella piu grandi di lei. Le condizioni economiche erano precarie. La madre faceva lavori domestici presso altre famiglie. Il padre coltivava un piccolo terreno e faceva lavori saltuari. La madre era descritta come assente sia fisicamente che psicologicamente.
"Papa' portava me e spesso mia sorella, piu' grande di tre anni, in campagna e faceva.........Dottore mi scusi ma ancora non me la sento di parlare di quei momenti. La violenza termino' intorno ai 14 anni, quando minacciai di denunciarlo. Seguirono due anni in cui avevo praticamente dimenticato tutto e non riuscivo a capire perche odiassi mio padre, finche' un giorno lui mi picchio' per un motivo futile ed io, in preda alla rabbia, ricordai tutto. Poco tempo dopo mia sorella denuncio' nostro padre ed io fui chiamata a testimoniare. Se avessi confermato tutto, papa' sarebbe andato in carcere, ma se non lo avessi fatto mia sorella sarebbe passata per visionaria, pazza o mentitrice. Le pressioni per ritrattare furono fortissime. Ricordo che l'avvocato di papa' mi disse che per colpa mia un brav' uomo sarebbe andato in carcere e la famiglia si sarebbe sfasciata. Mia madre non sapeva cosa fare e/o dire e piangeva, un fratello mi esortava a tacere, l'altro a dire la verita'. Le persone del quartiere si erano divise in due fazioni. Alla fine confermai tutto, papa' fu condannato, un fratello se ne ando' di casa, i miei si separarono. Segui un periodo terribile, mi sentivo in colpa, mi vergognavo, ero additata da tutti e mi isolai, aiutata soltanto da mia sorella Poi incontrai l'uomo che e' diventato mio marito. Dopo poco tempo gli dissi tutto, ma lui, stranamente, capì e rimase con me. Avevo finalmente un uomo che mi capiva, mi stava vicino, non mi giudicava e soprattutto mi accettava, nonostante sapesse della violenza.. Anche la sua famiglia, sebbene grazie al segreto, mi stette tanto vicino. Finalmente avevo una vera famiglia, mi sentivo accettata. La sorella di mio marito mi porto' a lavorare con lei. Tre anni fa mi sposai ed andammo ad abitare nella casa di mia madre, ma passavamo quasi tutto il tempo da mia suocera".
Seppure tra alcune difficolta' sembrava procedere tutto per il meglio, quando accaddero diversi fatti: 1) alcuni mesi prima della crisi la cognata, che in quel periodo aveva seri problemi coniugali, fece una tremenda scenata di gelosia alla propria madre, accusandola di preferire Paola a lei. Segui' un brusco raffreddamento dei rapporti con tutta la famiglia acquisita. Qualche tempo dopo Paola, a partire da alcune frasi realmente dette dalla suocera e dalla cognata, comincio' ad avere prima il dubbio e poi la certezza che le due donne sapessero dell'abuso. 2) Circa due mesi prima della crisi Paola fece la madrina di battesimo alla figlia di un parente del marito. "Fare la madrina di una neonata e' una grande responsabilita',si diventa la figura piu' importante dopo i genitori. Oscillavo fra il timore di non essere all'altezza del compito e l'idea di non esserne degna a causa del mio passato". 3) Circa quindici giorni prima della crisi Paola litigo' fortemente con la cognata, perche' era stata derisa sul posto di lavoro. 4) Il giorno della crisi il padre, a suo dire in segno di riconciliazione, ando' a trovarla portandole in dono un quadro con una donna nuda.
"Appena vidi il quadro pensai che quella donna fossi io. Fui presa da una grande angoscia. La notte non dormii. Il giorno dopo andai al lavoro, ma non ce la facevo e tornai a casa . Come in un turbine, cominciai a pensare di essere tanto cattiva e/o che gli altri potessero pensare cio', poi che potessi abusare della bambina a cui avevo fatto da madrina e/o che gli altri potessero pensarlo. Mi sembrava di impazzire, l'angoscia cresceva, cresceva ed io non riuscivo a fermare il pensiero finche' mi convinsi che tutti sapessero che ero stata violentata da mio padre, perche mia cognata aveva parlato".
I dati sopra esposti ed altre notizie non riportabili per problemi di spazio, sembrano sostenere l'ipotesi che Paola, dopo il processo, riusci' a riorganizzarsi grazie al legame affettivo con il fidanzato ed a quello con la famiglia di lui.
Negli anni che precedettero la prima crisi Paola aveva strutturato un rigido e generalizzato perfezionismo volto ad evitare le facili autocolpevolizzazioni, la vergogna, il timore del giudizio, dello sbaglio e quindi del rifiuto.
A mio avviso le ragioni della rottura psicotica proprio in quel momento, a parte le cause predisponenti rappresentate forse dalla biologia e certamente dalla costruzione di particolari e disfunzionali modelli operativi interni di se' e dell'altro a partire dalla propria storia di sviluppo, sono da ricercare:
a) nella sensazione di solitudine successiva alla fine della "luna di miele" con la famiglia del marito.
b) nel vissuto di pericolo successivo alla percezione, a mio avviso corretta, che le due donne avessero saputo dell'abuso.
c) nell'angoscia connessa alle idee di indegnita' ed incapacita' fatte affiorare dal madrinato. Forse non a caso, dopo il matrimonio, c'erano stati due inspiegabili aborti spontanei.
d) nel vissuto di pericolo successivo alla lite scatenata da Paola contro la cognata in risposta ad una derisione reale. " Me l' avrebbe sicuramente fatta pagare ".
Alla luce di cio', il regalo del quadro della donna nuda da parte del padre, appariva l'ultima goccia su un vaso gia' colmo.
Nei mesi che seguirono la crisi psicotica la paziente, che continuava a prendere soltanto otto gocce di aloperidolo al di', torno' alla modalita' di funzionamento precedente il periodo critico e soltanto una volta temetti una ricaduta ( aveva detto ad una collega di non fare la " furba " sul lavoro e subito dopo era scattato il timore che gliela facesse pagare ). Dopo circa un anno di sedute settimanali mi disse di aver sospeso le medicine perche' era incinta. Negli ultimi mesi avevamo trattato piu' volte il desiderio - timore di una gravidanza.
La gravidanza ando' avanti bene, mentre esploravamo il timore di non essere una buona madre. Intorno alla fine del quinto mese di gravidanza le fu fatta un'altra proposta di madrinato "non rifiutabile " e subito dopo un'ecografia mise in dubbio la normalita' del feto . Dopo quattro giorni il marito mi chiamo' dicendo che Paola stava malissimo. Alla visita, a cui la paziente era venuta soltanto perche' costretta, si mostro' diffidente, oppositiva ed in alcuni momenti perplessa. All'ennesima sollecitazione a parlare da parte del marito, Paola disse : "Questa e' una farsa, perche' mi hai portato dal dottore? Io non sono malata, io sono cattiva, io sono solo cattiva, e' giusto che paghi le mie colpe, devo espiare le mie colpe. E poi cos'e' questa storia che sono incinta? Io non sono incinta. Non voglio piu' stare dal dottore, voglio tornare a casa". Data la gravita' della situazione e non senza serie difficolta', feci ricoverare la paziente. Dopo quattro giorni andai a trovarla. Come concordato con i medici del reparto, erano stati somministrati neurolettici a basse dosi ed il delirio era rientrato. La paziente si scuso' dei problemi creati in occasione del ricovero ed espresse il timore di potere avere una nuova ricaduta. Era consapevole di essere incinta e con gioia mi riferi' che l'ecografia fatta nella mattinata escludeva anomalie fetali. Mi parlo' della grande angoscia provata quando il precedente ecografista le aveva detto che forse il feto aveva delle anomalie, ma non sapeva come era scivolata nella condizione successiva. Dopo due giorni tornai a trovarla e la feci dimettere. Nel corso del colloquio successivo alla dimissione mi espresse la sua profonda gratitudine per averla fatta ricoverare e per le visite fatte in ospedale, mi parlo' del desiderio di essere una buona madre e della conseguente decisione di voler riparlare dell'abuso sessuale di tanti anni prima. Quello che segue e' un estratto di quanto riferito a tutt'oggi dalla paziente circa l'abuso.
"Mio padre portava me e mia sorella in campagna oppure, quando mamma non c'era, sul lettto grande. Inizialmente ci baciava il seno......poi comincio' a mettersi dietro di me e faceva........poi davanti .......e faceva. A volte, dopo, piangeva e diceva che non l'avrebbe fatto piu'. A volte mi estraniavo e non sentivo piu' niente, a volte il mio corpo provava piacere. La cosa strana e' che di quel periodo ho da un lato ricordi sbiaditi, confusi, come se avessi dei buchi, e dall'altro dei ricordi vividissimi che, specie in passato, invadevano all'improvviso la mia mente. Questi ricordi hanno ostacolato a lungo la vita intima con mio marito. Mi sono sempre sentita in colpa, perche' a volte il mio corpo ha reagito provando piacere, perche' non ho parlato prima, perche' ho parlato. Insomma la mia vita era ed e' piena di sensi di colpa e spesso non riesco a trovare il bandolo della matassa. Anche la vergogna e' un' emozione che mi ha sempre accompagnata".
Attualmente la paziente ha una figlia di pochi mesi e si comporta come una madre molto apprensiva. Credo che bisognera' lavorare ancora a lungo per cercare di aiutarla a fronteggiare le emozioni che sente " devastanti " ed a ristrutturare i modelli operativi di se' e dell'altro.

ELENA: L'ABUSO SIMULATO

Il primo incontro con Elena fu decisamente anomalo. Mentre stavo nella mia casa di campagna venni contattato da un vecchio amico, medico di famiglia del paese, che non sapeva piu' cosa fare con la paziente. "Vengo chiamato continuamente dal marito per i sintomi piu' vari e qualunque cosa faccia non funziona. La signora assume psicofarmaci ad alti dosaggi e mi ha chiesto di poter consultare uno psichiatra di mia fiducia, in attesa che torni in citta' e ne trovi uno lei. La famiglia e' tornata in Italia da circa due mesi e gli psicofarmaci che assume sono stati prescritti da uno psichiatra tedesco. So che non gradisci fare visite al domicilio del paziente, ma ti prego di accompagnarmi, perche' la paziente e' terrorizzata e non si muove da casa, tanto si trattera' soltanto di una consulenza". Mi lasciai convincere e mi ritrovai in una vecchia villa perfettamente ristrutturata. Ad attenderci c'era il marito, un uomo dall'aspetto giovanile e dall'atteggiamento decisamente manageriale, che dal nulla aveva costruito un piccolo impero economico. Questi, con gentilezza, ma con il fare tipico di chi non e' abituato a perdere o a far perdere tempo, riferì che la moglie aveva cominciato a stare male quattro anni prima con tachicardie, svenimenti, risvegli notturni in preda al terrore, paura di stare da sola, cefalee.Vennero consultati cardiologi, internisti, neurologi e quindi psichiatri, senza alcun risultato. Da circa un mese, dopo un ricovero di cinquanta giorni, era stata dimessa da una clinica tedesca con la prescrizione di neurolettici sedativi e benzodiazepine. Nel corso degli anni le diagnosi, fatte da eminenti specialisti, erano state assai varie: depressione, attacchi di panico, stato crepuscolare, isteria, ipocondria, psicosi reattiva breve.
Venni portato nella stanza della paziente. Le faceva compagnia la madre, un'anziana nobildonna elegantemente vestita, dai modi decisi e dall'aspetto austero, venuta dall'estero per aiutare la figlia che, mostrando di conoscere la prassi psichiatrica, saluto' e rapidamente ci lascio' soli.
La paziente, fortemente sovrappeso, ordinata nell'aspetto e nella cura della persona, ma sicuramente poco incline ad occuparsi di quei particolari che avrebbero potuto valorizzare la propria femminilita', appariva nel complesso dimessa, fuori posto rispetto al contesto. Mi accolse con cordialita', il colloquio si protrasse per circa due ore e si concluse con l'espressione della sua gratitudine perche' nessuno l'aveva mai ascoltata per cosi tanto tempo. Ritenni che la paziente soffrisse di attacchi di panico il piu' delle volte secondari a fenomeni di depersonalizzazione e/o derealizzazione e, rispondendo alla sua richiesta che impostassi la terapia in attesa che lei riprendesse il contatto con il precedente psichiatra, prescrissi un antidepressivo e un ansiolitico e consigliai una psicoterapia. Dopo circa un mese telefono' dicendo di sentirsi decisamente meglio e chiedendo di essere seguita da me. Diedi la disponibilita' a seguirla farmacologicamente ma, per mancanza di tempo, confermai l'impossibilita' ad iniziare la psicoterapia. Si dichiaro' disposta ad aspettare. Seguirono sei visite con frequenza mensile, durante le quali fu possibile scalare le medicine.
Dopo circa due mesi dall'inizio della psicoterapia, preceduta dall'accennare della paziente a fatti di cui ancora non si sentiva di parlare, ci fu una seduta drammatica. Mentre sto salutando l'ultimo paziente vengo avvisato dalla segretaria che nella sala di attesa c'è Elena, giunta con più di un'ora di anticipo rispetto al previsto. "E' arrivata spettinata, con uno sguardo strano, non ha salutato, ha chiesto di lei e si è seduta. Adesso sembra che dorma, è semi-sdraiata sul divano, con le gambe semi-aperte e fa strani gesti con le mani. Ho provato a chiederle se potessi fare qualcosa per lei, ma non mi risponde. La situazione è molto imbarazzante perchè io non so cosa fare ed i pazienti degli altri medici ....".
Mi reco nella sala di attesa e vedo la paziente all'apparenza addormentata. La saluto e la chiamo. Lentamente sembra svegliarsi, si guarda intorno e quindi mi segue. Giunta nella stanza si siede e, lentamente, ma con circospezione, esplora visivamente ogni centimetro dello spazio davanti ed intorno a lei. Questo comportamento è interrotto soltanto da sguardi intensi rivolti al terapista. L'impressione è che lo spazio la spaventi e il terapista la rassicuri. Poi si raggomitola su se stessa, quindi segue una caduta del tono muscolare e dalla poltrona scivola a terra sbattendo violentemente testa e spalla. Da questa posizione comincia a farfugliare parole incomprensibili e poi ad urlare "Basta, andatevene, smettetela", mentre serra violentemente le gambe e mulina le braccia come per allontanare qualcuno.
Sono interdetto, mi avvicino, è fortemente sudata, mentre continua la sua lotta. A fatica riesco a calmarla dicendole che sono il dottore, che sta nel mio studio e che in questo momento non sta accadendo niente di pericoloso. Lentamente si riprende e la invito a sedersi. Si siede su un lato della poltrona e con gli occhi rivolti in basso ed una voce da bambina, racconta dello stupro subito a 11 anni ad opera di amici del fratello. Il racconto è ricco di rossori al volto, di pause e soprattutto di lacrime. Riferì poi che, prima della seduta, aveva visto un film particolarmente violento. "La vista del film mi aveva spaventata, mi sentivo in pericolo e sono fuggita da casa per venire da lei".
Quella fu la prima di una serie interminabile di sedute con "rivelazioni" sempre più truculente. Violenze sessuali di amici del fratello, del fratello, del fratellastro della madre, della madre ed infine del padre. Un vero campionario di nefandezze raccontate con partecipazione affettiva intensa e congrua. Nel corso delle sedute si alternavano stati di coscienza normali, forse alterati, sicuramente alterati, però l'identità della paziente e del terapista rimanevano stabili e non c'erano grossolani fenomeni amnesici. Il ricordo delle violenze raccontate permaneva stabile, ciò su cui si confondeva era la cronologia dei fatti ed i particolari. Più raccontava e più crescevano i miei dubbi, finchè mi convinsi che mentisse. La menzogna non era però quella lucida, chiaramente consapevole, perfettamente organizzata di un adulto. Appariva essere piuttosto la menzogna che può costruire un bambino che sa di mentire, ma che non ha la capacità di tenere contemporaneamente presenti tutti gli elementi, i dettagli. L'unica cosa sicura era il canovaccio sotteso: lei era la vittima inerme, gli altri i persecutori ed io l'unico possibile salvatore. Chi mi trovavo di fronte? Cosa potevo aver fatto per incoraggiarla a mentire? Quale era il confine tra la verità, la fantasticheria e la menzogna? Mi rendevo conto che mettere in dubbio il racconto della sua vita era una mossa forte dalle conseguenze non facilmente prevedibili, ma ritenni che non si potesse fare altro. Forte del convincimento che non fosse psicotica e con l'obiettivo di ristabilire una sincera collaborazione, decisi di giocare a carte scoperte. Le feci notare le numerose incongruenze presenti nei suoi racconti, le espressi i miei dubbi e la convinzione che almeno su alcune cose avesse mentito. Le dissi con chiarezza che ero disposto a continuare la psicoterapia a patto che finisse quella farsa che poteva soltanto danneggiarla.
La paziente si arrabbiò, mi insultò, disse che non avevo capito niente e se ne andò dicendo che ormai non valeva più la pena vivere. La segretaria fu tempestata di telefonate. Risposi a due delle tante ribadendo con fermezza i concetti espressi. Alla seduta successiva entrò con la testa china e con il volto rosso per la vergogna. Si scusò, appariva sinceramente pentita e cercò di spiegare le motivazioni del proprio comportamento. "Lei è stato il primo psichiatra che mi ha ascoltata veramente, senza fretta. Sentivo che ascoltava e partecipava. Sono stata meglio subito dopo la prima visita. Non mi sentivo più sola. Le visite successive hanno confermato la prima impressione ed io mi sono innamorata di lei. Sentivo di stare meglio e cominciai a temere che proprio per questo lei interrompesse le sedute, e questo mi faceva stare di nuovo male. Cosa potevo offrirle per garantirmi la sua vicinanza?... E cominciai a fantasticare e...come mi è sempre accaduto, ho cominciato a confondere realtà e fantasia e poi a temere che lei si accorgesse...".
Sono passati diversi anni. La paziente non aveva subito alcuna violenza di tipo sessuale, ma ne aveva subite gravissime sul piano dell'accudimento. Il padre era un ricco uomo d'affari, perennemente in viaggio, assente emotivamente anche quando era presente fisicamente. La madre era una bella signora con tanto tempo libero, impiegato in feste ed amanti, che sembrava ricordarsi della figlia soltanto quando stava male fisicamente. Il fratello odiava tutti i membri della famiglia perchè era stato mandato in collegio da piccolo. La paziente aveva trascorso la propria infanzia con balie efficienti, ma aride affettivamente. L'unico rimedio alla solitudine apparivano essere state una ricchissima attività fantastica e/o la malattia fisica. "Quando stavo male mamma rimaneva in casa e curava personalmente la somministrazione delle medicine". Andò avanti, tra fantasticherie e malattie per tutta l'adolescenza, poi aveva conosciuto suo marito, un ragazzo povero ma ambiziosissimo. L'inizio della malattia era coinciso con il successo lavorativo ed i viaggi sempre più frequenti e più lunghi del marito, che avevano fatto sentire Elena troppo sola e le vecchie strategie erano riemerse.

INDIZI E SUGGERIMENTI SULLA STRATEGIA

E' piuttosto nota l'incidenza e la connessione tra una storia di abuso infantile, in particolare di natura sessuale, e lo svilupparsi di un disturbo dissociativo nell'età adulta. Seppure frequente, tuttavia, questa possibilità non rappresenta una regola, perciò va tenuta presente, ma deve essere considerata un indice di sospetto. Infatti, non solo possono essere numerosi i casi in cui nella genesi di un disturbo dissociativo siano altri i fattori in causa, ma bisogna tenere in considerazione come anche nelle storie di vita di pazienti con altri disturbi sia possibile riscontrare degli eventi di abuso.
Inoltre, non è infrequente che un disturbo di tipo dissociativo si presenti con sintomi che simulino alla perfezione altre categorie diagnostiche, per poi cambiare sintomatologia quasi improvvisamente a distanza di mesi o anni. Orientare così la strategia terapeutica soltanto in base alla diagnosi rappresenta un limite e ci impedisce di ascoltare realmente il nostro paziente.
I casi che abbiamo descritto ci permettono, inoltre, di sottolineare l'importanza di considerare gli indizi di un abuso veicolati da immagini apparentemente fuori contesto o da sogni.
L'importanza dei sogni, delle immagini e delle fantasie è forse sottovalutata nella terapia cognitiva, ma dovremmo invece riflettere sul fatto che i traumi e gli abusi che avvengono in età infantile e che vengono dissociati, sono immagazzinati in modalità senso-motorie ed iconiche piuttosto che verbali, sia perchè sono adeguate allo sviluppo mentale del bambino, sia per la qualità emotiva dell'evento, di elevata intensità. La differenza tra le memorie d'infanzia, che sono eidetiche, e quelle adulte, che sono lineari, suggerisce che, in un adulto abusato da bambino, il ricordo dissociato possa manifestarsi più facilmente attraverso immagini, fantasie, sogni, ed anche flashback, acting-out o emozioni violente senza contenuto, anzichè come ricordi verbali o rappresentazioni lineari.
Alcuni Autori sostengono anche che questa modalità mnemonica particolare può fornirci la possibilità di distinguere tra fantasie inconsce e realtà storica, dissociata o meno che sia: la memoria di un trauma reale avrebbe un'intensità emotiva più carica, una vividezza e una modalità visiva o sensoriale di presentazione maggiore di quanto non abbiano altre memorie o fantasie inconsce (Person & Klar, 1995).
In un altro caso, una paziente, che solo in seguito ricorderà delle molestie sessuali subite in età infantile, riferisce in prima seduta di un sogno ricorrente nel quale una grande figura maschile, in ombra e perciò non identificabile, le si avvicina con le braccia aperte; la paziente, bambina nel sogno, ne è terrorizzata e cerca di chiamare la madre che però non accorre. Il sogno termina senza soluzione.
Dal punto di vista comportamentale e degli schemi di relazione, poi, non è infrequente notare quella che gli psicoanalisti chiamerebbero coazione a ripetere: spesso cioè, le donne che sono state abusate sessualmente da piccole tendono a cercare e a trovare degli uomini violenti o che le umiliano oppure a trovarsi in situazioni pericolose, senza rendersene conto consapevolmente. Costruiscono, cioè, delle relazioni sulla base dei modelli operativi che conoscono.
Allora, nel caso che il terapeuta abbia la sensazione di trovarsi di fronte ad un paziente abusato, che cosa deve fare? La domanda sembra oziosa, ma in realtà così non è; la supposta indistinguibilità tra fantasia e realtà fa dire a Freud (1915-1917) che "se (tali avvenimenti infantili) fanno parte della realtà, tanto meglio; se la realtà non li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con la fantasia. Il risultato è lo stesso, e a tutt'oggi non siamo riusciti a dimostrare una diversità di conseguenze a seconda che la parte maggiore in questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realtà". L'ipotesi è che esistano fantasie primarie di origine filogenetica che rispondono a un bisogno pulsionale. Se si segue questa teorizzazione è evidente che non è fondamentale esplorare la realtà storica di un evento riferito.
Tuttavia, anche senza entrare nel merito della teoria, noi non possiamo non concordare con Wetzler (1985) che fa notare come "il buon senso da solo suggerisce che gli eventi reali hanno un impatto differente su un individuo rispetto a quelli immaginati o plausibili". Il che vuol dire che, non solo non ci sembra utile tralasciare la possibilità di accedere ad eventi che possono avere giocato un ruolo eziologico nella sofferenza passata e presente di un paziente; ma anche che non ci sembra etico metterci nel ruolo, probabilmente già conosciuto da quel paziente, di chi non presta attenzione ai fatti traumatici di cui è stato vittima.

CONSIDERAZIONI

Circa il tema di questo articolo, l'abuso sessuale, le pazienti di cui abbiamo parlato esemplificano le tre possibilita' che un terapista puo' trovarsi di fronte: il sospetto, la certezza e la simulazione. Indubbiamente, oltre agli aspetti comuni, ognuna espone il terapista a problematiche diverse rispetto alla relazione terapeutica, al che fare, etc.
Daniela presentava tutte le stigmate di un abuso sessuale, ma poteva il terapista spingersi fino al punto di ipotizzare in maniera esplicita che avesse subito una violenza sessuale? A nostro parere una tale affermazione non e' vietata di per se', ma prima di poter essere pronunciata e' necessaria un'analisi attenta dei dati a disposizione, dello stato della relazione, delle condizioni della paziente, del cosa accadrebbe dopo. In una parola del timing. Noi, essendo l'uno lo psichiatra inviante e l'altro lo psicoterapeuta, abbiamo ritenuto che non fosse ancora giunto il tempo, ammesso che giunga. Come sostengono Weiss & Sampson (1986), ma anche Bowlby (1979), l'apprendimento implicito della "credenza patogena" che ogni spinta verso l'autonomia, l'autoaffermazione e la fiducia in se stessa da parte di Daniela avrebbe comportato sicuramente un abbandono, un rifiuto o un disastro, ha reso finora difficile affrontare gli aspetti più dolorosi all'origine di tale convinzione. Se è vero che la non consapevolezza e il mancato riconoscimento di certe rappresentazioni sono motivate dal desiderio di non danneggiare i vincoli vitali con i genitori, noi abbiamo scelto di rispettare questa necessità in Daniela. Nello stesso tempo, però, poichè analoghe convinzioni patogene e modelli di comportamento si sono presentati nella relazione terapeutica, è stato possibile discuterne in una condizione di sicurezza maggiore. Il senso di colpa e di vergogna che Daniela prova ogni volta che arriva in ritardo in seduta, le angosce di abbandono e rifiuto che sente durante ogni separazione, la paura di sentirsi disprezzata ogni volta che ha la sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato e deve raccontarlo al terapeuta, il timore di una catastrofe (dalla morte dei genitori a un disastro inconoscibile) conseguente ad ogni anche piccolo successo personale; ognuno di questi episodi ha fornito la possibilità di affrontare e cercare di disconfermare queste aspettative disfunzionali, e provare a dargli un senso connettendole con alcune delle esperienze della sua vita infantile.
Paola porto' sin dalla prima visita il tema dell'abuso sessuale certo, ma all'interno di un delirio ("tutti sanno che sono stata violentata"), per cui fu necessaria una particolare scansione della seduta e della relazione affinche' assumesse i farmaci in quel momento indispensabili. Per il contesto ed il momento in cui avvenne la prima visita, il terapeuta si trovo' anche nella condizione di dover rivestire due ruoli che usualmente preferisce tenere separati: lo psichiatra che prescrive i farmaci e lo psicoterapeuta. Questo doppio ruolo, ovviamente, si rivelo' particolarmente arduo in occasione della seconda crisi psicotica quando, pur con tutte le attenzioni e le accortezze possibili, fu indispensabile il ricovero contro la volonta' della paziente. Questo evento, particolarmente temuto dal terapista perche' rompeva di fatto la collaborazione cercata e raggiunta, si e' invece fino ad adesso rivelato un vero e proprio asso nella manica, perche' la paziente lo ha poi letto per quello che era: un atto di protezione. Per dirla con le sue parole: "Per mia fortuna lei ha capito la gravita' della situazione e mi ha ricoverata, perche' io mi sarei sicuramente uccisa. Anche se in quel momento l'ho odiata, adesso voglio ringraziarla anche per avere partecipato a tutte le fasi del ricovero e per aver cercato di rassicurarmi e spiegarmi quello che stava succedendo. Ormai ho capito che potrebbe risuccedere che io vada fuori di testa e non e' consolante, pero' e' rassicurante che oltre a mio marito ci sia lei che mi puo' aiutare. Lei dice sempre, ed e' vero, che io per sentirmi al sicuro vorrei controllare tutto, devo ammettere che e' la prima volta che non controllo niente e mi va bene". Comunque il nostro parere e' che sia preferibile, laddove e' possibile, fare svolgere a due persone diverse le funzioni psicofarmacologica e psicoterapica. Dal punto di vista teorico l'impostazione e la lettura della relazione terapeutica con Paola, all'interno della teoria dei sistemi motivazionali interpersonali di Liotti (1994), risultano essere particolarmente stimolanti ed articolate proprio per la doppia veste del terapeuta. Interagire con un paziente in fase psicotica e prescrivergli un farmaco che si ritiene indispensabile, continuare a prescrivere un farmaco al di fuori della fase psicotica, decidere un ricovero contro la volonta' del paziente, proprio mentre si porta avanti un lavoro psicoterapeutico fondato sulla collaborazione, sono tutti atti che facilmente possono essere letti all'interno del sistema agonistico e quindi suscitare umiliazione, vergogna, rabbia, rifiuto, oppure possono risultare talmente inaspettati e confondenti da essere essi stessi fonte di dissociazione della coscienza. Eppure in certi momenti non si puo' fare altro. Al fine di limitare i danni e' indispensabile tenere presente quanto sopra, interrogarci circa il senso delle nostre emozioni e dei nostri pensieri di quei momenti per meglio comprendere quelli dell'altro e tenere come faro della terapia l'obiettivo della collaborazione, per raggiungere lo scopo comune rappresentato dalla salute del paziente. Se ci si muove lungo questa via e viene adeguatamente presentato e motivato, anche il provvedimento violento per antonomasia, il trattamento sanitario obbligatorio, puo' in un secondo tempo essere letto dal paziente all'interno di una cornice diversa da quella agonistica e non solo non ostacolare il lavoro psicoterapeutico, ma addirittura facilitarlo.
Elena, secondo una propria usuale procedura, operante soprattutto nei rapporti significativi, aveva rapidamente messo la menzogna al centro della relazione terapeutica. Dal suo punto di vista soltanto mentendo poteva garantirsi la vicinanza del terapista e poiche' aveva bisogno di una grande vicinanza non poteva fare altro che costruire bugie sempre piu' grandi. La conseguenza era che si distanziava sempre piu' da se' e dalla propria storia e che metteva a rischio sia la qualita' che la continuita' della relazione. La colpa, l'imbarazzo, la vergogna, la paura che si generavano all'interno e all'esterno di una relazione siffatta, costituivano spesso la causa scatenante, proprio per la loro insopportabilita' e spesso contemporaneita', di un'alterazione dello stato di coscienza che rimaneva comunque orientato verso la menzogna. In sintesi, l'ascolto e l'accoglimento della sofferenza della paziente, operato dal terapista, aveva elicitato nella stessa il comportamento di attaccamento che, in base alla propria storia ed ai modelli operativi interni di se', dell'altro e della relazione, poteva essere soddisfatto e garantito soltanto tramite la menzogna. Curiosamente, senza saperlo, la paziente condivideva, con alcuni specialisti del ramo, la teoria che il reale andamento delle esperienze di attaccamento-accudimento nell'infanzia non fosse particolarmente o sufficientemente degno di attenzione.


IN CONCLUSIONE

Il problema dell'abuso infantile e delle conseguenze psicopatologiche nell'adulto è estremamente complesso. Come sostiene Paris (1995) a proposito del disturbo borderline di personalità, patologia ad alta incidenza di abuso sessuale nell'infanzia, qualsiasi ipotesi globale relativa alle cause dovrà essere necessariamente multivariata ed è chiaro che non esiste un legame causale semplice tra cattiva funzione genitoriale e psicopatologia dell'età adulta. Kauffman et al. (1979) hanno addirittura riscontrato come bambini con genitori psicotici possano divenire competenti, cioè degli adulti sufficientemente funzionanti. I fattori di rischio ambientali possono così interagire sia con la scelta dei meccanismi di difesa a disposizione, sia con fattori costituzionali innati, costruendo una cornice di sviluppo nella quale ogni individuo esprime la propria vulnerabilità o invulnerabilità agli eventi di vita.
Questa teoria appare tanto più credibile quanto più grave è il disturbo psicopatologico del soggetto, e ci porta a fare delle considerazioni che non possono prescindere da essa.
In primo luogo, dovremmo resistere alla tentazione di adottare una teoria causale lineare. Disturbi psicopatologici simili possono rivelare processi evolutivi differenti, così come esperienze infantili analoghe possono produrre quadri sindromici diversi. Nei casi di maggiore gravità, come quelli che abbiamo provato a descrivere, la complessità della sintomatologia ci suggerisce di prendere in considerazione la possibilità di ricorrere a delle strategie terapeutiche multiple. Non è trascurabile l'utilità di una terapia farmacologica, soprattutto se ci troviamo di fronte ad una bouffée delirante, ma anche nel caso di sintomi comunque invalidanti. Talvolta si rende necessario persino il ricovero in ospedale per evitare conseguenze pericolose per l'incolumità del paziente. In molti casi, come abbiamo visto nel caso di Daniela, un rapporto di counseling tra psichiatra e psicoterapeuta può portare sviluppi e cambiamenti inaspettati nel processo terapeutico, oltre che fornire al paziente la possibilità di attivare maggiormente il proprio sistema di attaccamento e quindi di aumentare il grado di fiducia nella relazione. Analogo risultato può essere ottenuto consentendo la presenza di un familiare in alcuni momenti della terapia, come è successo con Paola.
In secondo luogo, se è vero che i meccanismi di difesa che un bambino adotta di fronte ad un evento traumatico o ad una situazione di rapporto dolorosa sono adeguati all'età e alle risorse disponibili per la sopravvivenza fisica e psicologica, questo non implica che, da adulto, gli sia possibile farne a meno. Se, ad esempio, un bambino utilizza la dissociazione di un abuso sessuale per mantenere una forma di rapporto con il familiare abusante, che rimane una figura di attaccamento che gli è necessaria, il percorso della sua vita potrà portarlo anche da adulto a cercare di mantenere la prossimità con tale figura, ritenendola ancora indispensabile alla sua esistenza. In questi casi, un atteggiamento troppo invasivo e di demolizione delle difese da parte del terapeuta può generare il rischio di un peggioramento delle condizioni del paziente. Forse certe volte è meglio rispettare le difese del paziente, anche a costo di mantenere, sia pur parzialmente, dei modelli operativi disfunzionali.
Per finire, ci troviamo a sfiorare il problema dal quale siamo partiti, cioè il problema della memoria.
La complessità del problema è accresciuta da molti fattori: la semi-permeabilità della memoria dissociata, che mostra una forte resistenza all'esplorazione e alla revisione terapeutica e, nello stesso tempo, influenza il comportamento, gli affetti e gli altri prodotti della mente del paziente in modo ambiguo, non chiaro ed equivocabile; i pazienti con esperienze evolutive difficili, anche se non abusati, possono agire nella relazione terapeutica secondo schemi fondati sulla mistificazione, l'inganno e la menzogna, caratterizzati da un assetto complessivo dei Sistemi Motivazionali Interpersonali alterato e confuso. Come abbiamo visto, in una psicoterapia possono verificarsi tutte le varianti legate alla veridicità e alla verificabilità dei ricordi.
Una volta esplorate tutte le strade percorribili, il terapeuta può comunque scoprire che esistono degli elementi ricorrenti che sembrano accomunare tutti questi casi. Nella descrizione dei casi citati ad esempio, abbiamo provato a sottolineare gli aspetti emotivi che ci sono sembrati centrali nella definizione dell'identità personale dei pazienti e delle relazioni interpersonali. Come avrete notato, l'esperienza di colpa e/o di vergogna accompagnano in maniera ricorrente una rappresentazione di sé come "malvagio, cattivo o ridicolo" e una rappresentazione dell'altro come "danneggiato oppure rifiutante, controllante e minaccioso". Seppure somiglianti, questi aggettivi veicolano significati differenti che non è semplice tenere separati: un paziente, nel tentativo di spiegare la diversità tra colpa e vergogna, facilmente le accomuna, sostenendo per esempio che "ci si vergogna perchè si è colpevoli di non aver fatto il proprio dovere". Esprimendo così sinteticamente la confusione tra Sistemi Motivazionali attivati contemporaneamente. Indipendentemente dal fatto che abbiano subito un abuso sessuale nell'infanzia, questi pazienti descrivono delle esperienze di relazione infantili in cui vari sistemi motivazionali sono attivati contemporaneamente costruendo dei modelli operativi di sé e dell'altro incoerenti, fondati su rappresentazioni contemporanee su più livelli, consce ed inconsce. Il concetto di colpa appartiene infatti al sistema cooperativo o dell'accudimento, ma spesso viene contrabbandato all'interno del sistema di attaccamento dove invece finisce per diventare uno dei possibili segnali di attivazione di un attaccamento invertito e/o del sistema agonistico e quindi di caratteristiche negative delle rappresentazioni dell'identità personale. L'indegnità, la colpa e il disvalore attivati da relazioni di (pseudo-) attaccamento in cui sono attivati contemporaneamente bisogno di sicurezza, paura, rabbia, sollecitudine e, in alcuni casi, pulsioni sessuali, organizzano dei modelli operativi multipli e confusi. Ed anche nella relazione terapeutica il terapeuta può avere la percezione disorientante di improvvise e apparentemente immotivate variazioni della qualità del rapporto.
Così, gli eventi traumatici di abuso sessuale sembrano avvenire all'interno di una cornice familiare nella quale le relazioni di scambio affettivo sono già deformate e incoerenti. L'abuso intrafamiliare contribuisce a rendere ancora più confuso il tutto, aggiungendo al caos tutte le componenti emotive, le rappresentazioni e le motivazioni del sistema sessuale. L'obiettivo terapeutico fondamentale è rappresentato in ogni caso dalla possibilità di rendere coerente e successivo ciò che è nebuloso e simultaneo, incrementando la capacità metacognitiva del paziente per consentirgli di controllare ed operare sulle sue rappresentazioni.

BIBLIOGRAFIA

Bowlby J. (1979), On knowing what you are not supposed to know and feeling what you are not supposed to feel, Canadian Journal of Psychiatry, 24: 403-408.
Freud S. (1915-1917), Introduzione alla psicoanalisi, Opere, vol. 8, pag. 526, Boringhieri, Torino, 1976.
Liotti G. (1994), La dimensione interpersonale della coscienza, La Nuova Italia Scientifica, Roma.
Kauffman C. et al. (1979), Superkids: competent children of psychotic mothers, American Journal of Psychiatry,136: 1398-1402.
Kuhn T. (1969), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino.
Muscetta S. (1997), I disturbi dissociativi: una sfida per una psicoanalisi evolutiva, Psicobiettivo, vol. 17, 1: 43-59.
Paris J. (1995), Il disturbo borderline di personalità, Raffaello Cortina, Milano
Person E.S., Klar H. (1994), Establishing trauma: the difficulty distinguishing between memories and fantasies, Journal of the American Psychoanalytic Association, 42, 4: 1055-1081.
Weiss J., Sampson H. (1986), The psychoanalytic process: theory, clinical observation and empirical research, New York, Guilford Press.
Wetzler S. (1985), The historical truth of psychoanalytic reconstructions, International Review of Psycho-Analysis, 12: 187-197.


RIASSUNTO: Il tema dell'abuso sessuale infantile viene trattato attraverso la terapia con tre pazienti adulte che ne esemplificano le varie possibilità: il sospetto, la certezza e la menzogna. Gli Autori sottolineano come l'abuso sessuale infantile intrafamiliare sia quasi sempre la punta dell'iceberg la cui base vada ricercata nella precoce e poi cronica alterazione del rapporto di accudimento-attaccamento che, attraverso la costruzione dei modelli operativi di sè, dell'altro e della relazione, determinerà un'attivazione eccessiva, fuori contesto o contemporanea dei vari Sistemi Motivazionali Interpersonali.

SUMMARY: Childhood sexual abuse is discussed through three patients therapy that illustrates the difference of possibility: suspect, certainty and lie. The Authors emphasize that parental childhood sexual abuse is often the tip of the iceberg, but the goal of the therapy remains the chronic distortion of the pattern of attachment that will determine an excessive, wrong and simultaneous activation of various behavioral-motivational systems.
 
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Jonian Noxha
view post Posted on 19/9/2018, 10:52




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view post Posted on 7/9/2021, 09:49
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Buon giorno. Quello che ho letto mi preoccupa molto. Questo è un argomento molto difficile, soprattutto per me. Ho due figlie e sono molto preoccupato per loro. Non voglio che succeda loro una cosa del genere. Stanno spesso con la tata. È una persona molto buona, ma nonostante questo, voglio essere sicuro al cento per cento che non accade nulla di male. Ecco perché ho installato il sistema di sicurezza Ajax. Ha la funzione di videosorveglianza tramite lo smartphone. Quindi, almeno a casa le bambine sono completamente al sicuro.
 
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